mercoledì 2 giugno 2010

2° racconto ( si fa per dire)

Nel leggere quelle poche e oramai sbiadite parole sentì gli occhi inumidirsi: non che fossero particolarmente tristi, tutt'altro ma quei vocaboli lo riportarono indietro nel tempo e si sa quanto siano emotivamente dolorosi questi salti temporali.
Ricordò con una precisione impressionante quell'istante di 57 anni prima al bar “dell'angolo” - così si chiamava -
Era seduto assieme a laura ad un tavolo vicino all'ingresso e stavano assaporando i primi raggi di un timido sole primaverile bevendo dell'ottimo caffè.
Rivide la mano di Laura che gli porgeva uno di quei cioccolatini che contenevano oltre alla pralina quei fogliettini dove solitamente vi era qualche aforisma, qualche frase più o meno nota.
L'immagine di se stesso intento a srotolare con curiosità il bigliettino era nitida più che mai così come il ricordo di quello che era scritto su quella velina trasparente. Laura, curiosa aveva allungato la mano e gliela aveva sottratta dalle dita. Vide i suoi occhi agili scorrere lo scritto a sua volta e gli parve di udire, come allora , la sua voce mentre lo leggeva con finta ufficialità: "questo è il dono della buona sorte per chi non dovrà temere nulla, neppure la morte”....

mercoledì 3 febbraio 2010

1° racconto

Era ancora buio. Una luna luminosa ed ostinata si insinuava tra le nuvole.
"sembra l'occhio di Dio" pensai con lo sguardo rivolto a quello squarcio di luce nell'oscurità del cielo.
Continuai a pedalare mantenendo una discreta andatura.
Il silenzio della notte non pareva infastidito dal lamento che le pedivelle emettevano ad ogni pressione del piede. La mia bicicletta arrugginita, Condor era il suo nome, svolgeva ancora egregiamente il suo servizio nonostante la non più giovane età. Da quando il petrolio era praticamente esaurito, così come altre risorse energetiche, quello era diventato uno dei pochi mezzi di locomozione ancora efficiente. Chi avrebbe immaginato, solo pochi anni fa, che il possedere un vecchio velocipede, sarebbe stata considerata una vera fortuna. Da anni l'uomo non se ne serviva più. Tranne qualche sportivo e qualche miserabile la maggior parte della gente si spostava con mezzi sempre più sofisticati; auto definite impropriamente ecologiche che consumavano una quantità incredibile di energia necessaria non solo per farle funzionare ma ancora di più per la loro costruzione. Ora invece, che l'umanità aveva compiuto un salto temporale a ritroso di quasi un secolo, chi era proprietario di una bicicletta veniva considerato un uomo davvero fortunato.
Quel mezzo fuori dal tempo ti dava la possibilità di compiere dei lunghi spostamenti in tempi relativamente brevi e di conseguenza la possibilità di sopravvivere.
E sopravvivere, dopo la catastrofe, era l'unica quotidiana prospettiva di chiunque fosse riuscito a non morire.
Erano passati tre anni oramai, da quando la terra, stanca della nostra ingordigia, lacerata dai continui abusi, si era ribellata dopo l'ennesimo stupro perpetrato ai suoi danni, mandando all'aria gran parte delle nostre umane certezze.

Come ogni mattina, anche oggi sarei uscito dal torpore del sonno pedalando per quindici chilometri. Quella era la distanza che percorrevo per recarmi al mio posto di lavoro. Il mio incarico era quello di coordinare una squadra di operai, specializzati nel recupero di edifici storici. Molti ritenevano alquanto inutile e piuttosto strano il dedicarsi ad una simile attività in un momento drammatico come quello in cui eravamo stati scaraventati. L'unica occupazione considerata fondamentale era quella della sopravvivenza, quella di procurarsi il cibo, soprattutto per nutrire quel corpo che deperiva ogni giorno di più. Noi non la pensavamo così. Pur essendo consapevoli che senza cibo saremmo scomparsi dalla faccia della terra eravamo fermamente convinti che per ricominciare avevamo bisogno di non perdere il filo della memoria e che per far sì che questo accadesse dovevamo ristabilire al più presto il contatto con il passato, la nostra storia.

La strada era praticamente deserta. Immondizia e macerie si disputavano lo spazio ai lati della carreggiata. L'incontro con cani di dubbia razza che ciondolavano come ubriachi, frugando tra la spazzatura alla ricerca disperata di qualcosa di commestibile, allertava i miei nervi e nello stesso tempo era la conferma che non ero l'unico essere vivente costretto a rincorrere la vita. Paura e sollievo erano i controversi stati d'animo con cui dovevo convivere, ogni mattina e la sera quando percorrevo la strada del ritorno.
Non occorreva essere un genio per capire che quei botoli rinsecchiti, costretti a nutrirsi ingerendo qualsiasi cosa, non avrebbero certo disdegnato un bel roast beef umano.
Questa era la ragione per cui portavo sempre al mio fianco una barra di metallo e nella tasca una pistola sempre carica che fortunatamente non avevo ancora usato.
La violenza mi aveva sempre ripugnato ma ero conscio che prima o poi avrei dovuto fare i conti con la realtà e che molto presto avrei dovuto accettarne le nuove regole, se volevo vivere. Molte delle mie convinzioni erano state messe alla prova e vacillavano ma nonostante la difficoltà a mantenere una certa coerenza con l'uomo che ero stato cercavo con tutte le mie forze di non imbarbarirmi del tutto perdendo così, ogni traccia di umanità.

Sentivo una forte tensione al collo. Provai allora a roteare di lato la testa, come per rimettere in sede gli ingranaggi. A volte funzionava. Funzionò.
Continuavo a pedalare guidato come da un ritmo interiore. Cercavo di non pensare e di tenere ben allertati tutti i sensi. Sapevo quanto fosse facile cadere in preda alla disperazione. Certe ferite erano ancora fresche e mi laceravano il cuore. Ci sono cose, che non si possono del tutto dimenticare, perciò non possiamo fare altro che riporle in qualche angolo della nostra anima con la speranza che il tempo vi depositi sopra quel tanto di polvere necessaria ad attutirne i contorni.
Sapevo che avrei dovuto fare i conti anche con questo, prima o poi, ma ora quello che era davvero importante era il presente. Il futuro era davvero prossimo. Il futuro era l'alba del giorno appresso, non certo più in là.
L'aria era frizzante. Questo primo spezzone d'autunno non era stato particolarmente freddo ma la temperatura da alcuni giorni era diminuita sensibilmente.
Arrivai al cantiere. Il cielo cominciava a schiarirsi e tutto attorno a me quello che restava della città si mostrò in tutto il suo orrore....
stefano mina